Certo, ormai le bombe non cadevano più, ma tutto sembrava ancora così precario.
Di conseguenza, come diceva Totò, “la testa andava tenuta al posto suo e cioè sulle spalle”. Invece la mia già da allora tentava continuamente la fuga. All’età di sei anni, facciamo anche sette, alla fatidica domanda cosa vuoi fare da grande? rispondevo con convinzione: la pittrice! Con ottusa convinzione, dovrei dire, giacché già sapevo che avrei costretto i miei genitori a spiegarmi per l’ennesima volta che non avevo afferrato il senso del quesito: quel cosa stava per quale mestiere. Mestiere, capito, piccolina? Vale a dire, quell’insieme di occupazioni perlopiù sgradevoli che, per quanto ben lontane dal nobilitare chicchessia, presentano l’indiscutibile vantaggio di garantirti uno stipendio a fine mese.
Amen, capito. Peccato, però.
Così, imparata la lezione, lasciai perdere le velleità artistiche e mi avviai verso una brillante carriera scolastica - portata a termine con coerenza fino alla fine - da “è intelligente, però non si applica”. Il che non era del tutto vero: io mi applicavo tantissimo, ma su cose che con la scuola avevano poco a che vedere. Dopo il disegno avevo scoperto un’attività altrettanto inutile che mi dava perfino più soddisfazione: quella di scrivere, nel senso di raccontare. Nel frattempo ero diventata una maestra. Un’amatissima maestra, posso dire con orgoglio: destino comune, credo, a quelli che, portandosi ancora addosso le stimmate dell’ultimo della classe, nel comunicare con i bambini s’ingegnano a trovare “le parole per dirlo”.
Dato che spesso queste parole stanno tra le righe di un racconto, dal narrare storie allo scriverle il passo, come si dice, fu breve; e, incredibilmente, fu breve anche il passo dallo scriverle al pubblicarle. Con Einaudi Ragazzi, al principio. E poi con tante altre Case Editrici: Giunti, Electa, Fatatrac,Interlinea, Rizzoli…
Sta’ a vedere – pensavo – che, alla fine dei conti, scrivere può essere anche un mestiere?
Sì, ma scrivere per chi? Per i bambini, certo; ma anche per lettori adulti. Racconti sparsi, all’inizio; tanti, pubblicati all’interno di antologie e su quotidiani. Poi una raccolta (Passaggi di stagione, Besa) e un romanzo (L’unicorno sulle scale, Falzea). Ma, insomma, la scrittura è o non è un mestiere? Sì, anzi è tanti mestieri. Avendo scritto testi tra loro molto diversi – romanzi, racconti, storie in versi, filastrocche, perfino enigmi in rima all’interno di una sceneggiatura per il fumetto Dylan Dog, e infine, ebbene sì, sceneggiature di fotoromanzi per la rivista francese Nous Deux – credo che sia così. Un mestiere dei più schizofrenici, che prima ti fa condurre un’esistenza da stilita e poi ti richiede il confronto (necessario e “appanicante”, in ogni caso benedetto) con i lettori. Nel corso di incontri col pubblico all’interno dei festival letterari ai quali sono stata invitata (Mantova, Gavoi, Pordenonelegge, Scrittorincittà e altri minori) mi sono sentita rivolgere ogni genere di domanda.
La più infida, in assoluto: ma lei si sente una scrittrice napoletana?
Risposta: sì… no… certe volte sì, certe altre no… Quella della “napoletanità” è un’arma a doppio taglio; nel bene e nel male, è un marchio di fabbrica talvolta ingombrante, che non va rinnegato, ma nemmeno troppo esibito. Ma qui lo dico e qui lo nego, perché ogni racconto, ogni romanzo, fa storia a sé. Poi, a chi mi chiede della mia vita rispondo che da anni non insegno più; che vivo con mio marito Claudio e la nostra "cana" Anita; che a tutti e tre piace viaggiare; che so cucinare bene; e che mio marito svolge due mestieri: il medico ematologo e lo sceneggiatore di un fumetto che ha per protagonista un ammazza vampiri. Insomma, in entrambi i casi lavora nel ramo “sangue”. Questa, siccome a quanto pare fa ridere, non evito mai di dirla.
Antonella Ossorio